“Una scintilla sull’acqua scura”, traducendolo letteralmente dall’inglese è questo il titolo del secondo album dei milanesi Pinhdar, alias Cecilia Miradoli (cantante) e Max Tarenzi (chitarrista/produttore): quest’immagine è un concetto perfetto per descrivere anche il contenuto del disco, un lavoro denso, magmatico, che sembra davvero un tuffo nell’acqua più scura, dove non si tocca, per riemergere poi guidati da uno scintillio, una parvenza di luce che proviene dalla superficie.

Con questo nuovo lavoro, seguito del già bellissimo “Parallel” del 2021, il duo milanese si proietta ancora di più verso un sound internazionale, ponendosi come voce guida nel nostro Paese per le sonorità trip-hop, abilmente miscelate con ritmiche post-punk (la magnetica “Cold river”) e momenti dream-pop (“Murderers of a dying god” starebbe benissimo in un disco dei Beach House): Beth Gibbons e i suoi Portishead appaiono gli indubbi modelli di ispirazione per i Pinhdar, ma a tratti sembra di ascoltare un’iconica Patti Smith su un tappeto sonoro ideato da Tricky (ad esempio nel primo singolo “Humans”), dove le circonvoluzioni sonore valorizzano il cantato e ne dilatano la forza in un sound spietatamente paludoso, dark, avvolgente e affascinante come solo certi viaggi anche un po’ pericolosi sanno essere.

Cecilia di volta in volta si fa poetica ipnotizzatrice, altre volte sirena sussurrante (“Abysses”) e ci fa riflettere su un presente oscuro e melmoso, cercando di indicarci la fioca luce attraverso la quale potremmo uscire dagli abissi: l’arte, la musica stessa sono universi luminosi dai quali ripartire e riprendere vita.

In questi dieci brani i Pinhdar si confermano una solida realtà del panorama musicale non solo italiano ma internazionale: se cercate Bristol sui navigli andate a bussare alla loro porta, troverete la meraviglia assoluta di due musicisti che hanno ben chiaro il loro percorso e hanno già sfornato due lavori notevoli, nei quali è facile perdersi e dai quali è facile rimanere avvinti, avviluppati come in una morbidissima sciarpa di seta, ovviamente scura.

Un’ultima, doverosa, aggiunta: la splendida (e quanto mai efficace) copertina è un dipinto di James Johnston, pittore e musicista londinese fondatore dei Gallon Drunk e già collaboratore di Nick Cave e PJ Harvey, con cui la band è venuta in contatto durante le registrazioni del disco e che è il perfetto corrispondente visivo di ciò che troverete in questo (splendido) disco.